L’ostinata essenza – Chiara Guidoni
“L’opera d’arte è una parola che viene detta da uomo a uomo.
Una parola che dice qualcosa che non può essere detto con altre parole”
Wladimir Weidlé
“Ascolta”. L’inizio di uno sconfinato numero di discorsi, che viene scelto in questa sede perché le opere di Francesco Petrone vanno guardate, ma anche ascoltate. E non per una loro componente uditiva, ma per richiamare un processo esperienziale più ampio, che non può essere relegato in un semplice “vedi”, “guarda”.
I suoi lavori parlano di forme minute e ombre giganti, sono narrative, ma di un’altra narrazione.
Ciò che suggerisce è forse un riconoscersi senza l’obbligo di guardarsi. Forse l’affermazione di non aver bisogno di occhi, ma solo di spina dorsale, che si può muovere, piegare, flettere, girare.
E ogni gesto ha il suo giro, il suo movimento, la sua forma. La risultante di una volontà che non passa per il linguaggio, non necessita di formulazione.
E la gestualità pervade ogni opera di Francesco Petrone con necessità. Una restituzione, un sollevarsi, un contrarsi per aprirsi, un voltarsi.
Quando si ferma il movimento? Al suo apice o alla sua fine? Quando è giusto renderlo visibile? Nella sua intenzione o nel suo compimento? O prima che accada? O, ancora, nelle sue conseguenze?
Il simbolismo che pervade ogni sua opera, si aggrappa con forza anche al tempo e al suo scorrere, oltre che alla figura. I significati non si esauriscono con l’icona, ma si increspano nella quiete del movimento.
Lui che fa della riduzione la sua cifra, apre a chi guarda strade ben più ampie del colpo d’occhio; pone la linea dell’orizzonte sempre un attimo più in là.
Ciò che si deve fare è solo abbandonare quello che prima sapevamo, guardare con occhi appena nati e ascoltare quello che risuona in noi, in quelle corde sopite. E lasciarle vibrare. E anche i simboli così familiari diverranno nuovi, avranno nuovi pesi e nuovi campi semantici.
L’artista sceglie la posa del Giano Bifronte, con uno sguardo a ciò che eravamo e uno a ciò che saremo. Fa cadere le maschere, con delicatezza, ci fa scoprire nuovi nel guardare e nel capire.
Della narrazione, parte fondamentale è il materiale: non come prova di esistenza nello spazio o contingenza. La materia narra allo stesso livello del simbolo: così il pane parlerà la lingua del pane, il cemento racconterà del suo esser stato pietra, il ferro arriverà con la sua durezza e il legno, con i suoi nodi e le sue cicatrici, dirà di essere materia in divenire. Anche i materiali vivono. Anche loro si consumano, come noi, anche loro sono imperfetti, come noi. Anche loro sono soggetti al tempo, come noi.
Nelle sue opere il dentro e il fuori si respirano e si mescolano, convivono la leggerezza e la profondità, in un’estetica familiare e allo stesso tempo misteriosa. L’artista riesce a nascondere in bella vista, che, si sa, è proprio dove le cose stanno più protette.
Ci si potrebbe chiedere se ciò che sapevamo è realmente ciò che dobbiamo sapere. Cosa è allora una croce? E una corona di spine? La mercificazione del simbolo, che lo svuota, viene combattuta con la stessa moneta. La figura così riacquista volume e peso, ma nuovi, differenti. Ogni immagine vive di sé e della sua nemesi, ognuno è se stesso e il suo contrario: coltelli che non possono offendere, occhi che non possono vedere, costole a proteggere forse due cuori.
E luci che esistono solo per scoprire quanta ombra riusciamo a fare.
Non più schiavi di vecchi legami, siamo pronti ad abbracciare altro.
+ cemento x tutt* – Giorgio De Finis
Francesco Petrone è un artista che da sempre (da quando lo conosco io) si cimenta col cemento. Lo ama, il cemento, in modo talmente viscerale che, anche quando è armato, si prodiga a tirargli via la “r”, per renderlo inoffensivo e gentile; e farlo piacere perfino ai ragazzi della via Gluck e alla loro progenie fiorita (“pure col cemento, si raccomanda, fate l’amore e non la guerra!”). Sebbene questa scelta, quella del cemento armato appunto, possa apparire peculiare e originale, chi si diletta di contemporaneo sa che sono tanti gli artisti che nel nostro paese hanno condiviso con ardore questa grigia passione: Giuseppe Uncini, che nel 1959 realizzava “Primocementoarmato”, non la tradì fino alla fine dei suoi giorni, confermando l’adagio che il primo amore non si scorda mai (l’ultima opera dell’artista, Epistylium, realizzata per il Mart di Rovereto, è una scultura in calcestruzzo armato); o Burri, che scelse il cemento per ricoprire le rovine di Gibellina Vecchia, distrutta dal terremoto del Belice (una pratica di inumazione, quella nel cemento, molto in voga per le sepolture meno metaforiche di Cosa Nostra). Abbiamo citato due nomi illustri, ma mi piacerebbe qui ricordare quella moltitudine di artisti minori e anonimi che in quegli anni davano vita a una vera e propria opera collettiva di land art al cui cospetto il Grande Cretto impallidisce, la cementificazione dell’intera penisola, vero monumento continuo, realizzato e non teorizzato. L’italico popolo di artisti celebra se stesso col cemento grigio del costruito (abusivo o regolato) e non con i marmi bianchi dell’EUR. Popolo di artisti… ma anche di inventori! Fu Angelo Lanzini, una targa a Pavia nell’omonima via lo ricorda, ad ideare, e brevettare, nel 1883, il cemento armato, facendo “del trovato una invenzione italiana”. Ancora oggi l’Italia figura al primo posto in Europa per la produzione e il consumo di cemento armato, 46 milioni di tonnellate l’anno. Mentre il consumo di suolo procede nella penisola a una velocità compresa tra i 6 e i 7 metri quadrati al secondo, col risultato che negli ultimi 15 anni il Bel Paese ha rinunciato a più di 3 milioni di ettari di superfici libere da costruzioni e infrastrutture, un’area più grande del Lazio e dell’Abruzzo messi insieme… una nazione che sembra convinta che non ci possa essere progresso economico senza costruire. E che al tempo stesso vive una emergenza abitativa senza precedenti. Il racconto che Francesco Petrone ci propone, non senza ironia e un pizzico di cinismo, attraverso la sua “cariolata” di sculture irriverenti è, per dirla con le sue parole, quella di un’Italia costruita “con materiali scadenti”. Ho avuto modo di apprezzare il lavoro di Francesco al MAAM, il museo abitato (e abusivo) nato a Roma sulla via Prenestina in un edificio industriale dismesso – tutto cemento armato come piace a lui – e occupato sei anni fa da oltre 200 migranti e precari senza casa provenienti da tutto il mondo. Questa fabbrica di salami (la Fiorucci) si trasformò in un relitto urbano abbandonato in seguito alla nascita della Cassa del Mezzogiorno, che premiava le industrie che si insediavano al Sud… e il Sud (lo stesso che ha dato i natali a Petrone) passava poco più giù, sulla via Pontina, dove la Fiorucci, ricostruita coi soldi pubblici, ha sede ancora oggi. In seguito l’ex-salumificio viene acquistato dal colosso delle costruzioni Salini, col piano di ottenere, grazie ai favori della politica, il cambio di destinazione d’uso dell’area e procedere all’ennesima operazione di speculazione edilizia. “Così va la vita”, per dirla con il Kurt Vonnegut di Mattatoio n.5.
Le opere di Petrone a Metropoliz parlano di mosche nello stomaco e di casa, la casa che ciascuna delle cento e più lumache bianche in cemento armato o poliuretano espanso che l’artista ha installato lungo la scala che porta alle abitazioni, porta sempre con sé e che non si può negare a nessuno.
Sottoscrivere, come ha fatto Francesco Petrone, e con lui tutti gli artisti del MAAM, la lotta per il diritto all’abitare, vuol dire anche combattere il consumo di suolo e costruire un mondo più bello e più giusto per tutt*
C’ERAVAMO TANTO ARMATI – Alessia Carlino
“I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Con queste parole, nel 1963, Francesco Rosi conclude il suo indiscusso capolavoro cinematografico Le Mani sulla Città. Il film, anticipando le attuali politiche dominate dalla speculazione edilizia, denuncia in maniera netta la crescente cementificazione urbana che ha devastato il paesaggio italiano e ha permesso a spietati imprenditori di impossessarsi dei beni comuni dello stato. Francesco Petrone, analizzando la situazione economica e sociale del nostro paese, sperimenta, attraverso l’utilizzo del cemento, un vocabolario plastico che contiene in sé una forza espressiva prominente ed uno spessore teorico suggestivo. Materiale di uso industriale, il cemento, votato all’indifferenza estetica e in radicale rottura con la tradizione manuale scultorea, diviene nelle opere di Petrone supporto iconologico per raccontare gli sviluppi e le contraddizioni della società contemporanea. Afferma Baudelaire nel 1851 all’interno del suo saggio dedicato alla moltiplicazione dell’individualità: “Ecco qui un uomo incaricato di raccogliere gli scarti prodotti in un giorno nella capitale. Tutto ciò che la grande città ha rifiutato, tutto ciò che essa ha perduto, disdegnato, consumato, egli lo cataloga, lo colleziona. Fa una cernita, una scelta intelligente, raccatta, come un avaro fa con il suo tesoro, i rifiuti che, rimasticate dalla divinità dell’industria, si trasformeranno in oggetti di pubblica utilità o di piacere”. Quegli oggetti di pubblico piacere a cui si riferisce Baudelaire divengono nel linguaggio dell’artista i manufatti linguistici di un suo personale gesto rappresentativo: l’opera illustra il manifesto di una coscienza individuale che diviene in un secondo momento storica e condivisibile.
Petrone sceglie il cemento per delineare una ricostruzione allegorica della realtà circostante donando ai suoi insetti le caratteristiche antropomorfe di una organizzazione di tipo sociale e collettiva. Queste mise en scène accolgono l’osservatore all’interno di uno spettacolo teatrale che contiene in sé una chiave di lettura specifica dell’esistenza. L’artista si appropria di un linguaggio, lo riveste di materia, analizza i contenuti e sperimenta la resa plastica della forma, questa esegesi figurativa rappresenta l’incipit di una narrazione specifica intesa come una rete eterogenea di valori e ammonimenti. L’icona cristologica raffigura l’ultimo appello alla coscienza distratta: il crocifisso cementificato di Cenere siamo, va oltre il concetto di reliquia e di pentimento ecclesiastico, la sua potenza non è più di matrice religiosa ma è la personificazione di un “teatro totale”, un luogo dove l’abitudine ad inginocchiarsi dinnanzi un’immagine salvifica prevale sul significato, siamo noi gli attori, i piccoli uccelli ai piedi della croce lo rammentano e denotano l’aspetto peculiare di una contraddizione. La finalità del lavoro di Francesco Petrone risiede nella sua onnicomprensiva capacità di rendere visibile il reale, non relegando le tematiche della società contemporanea in un idioma sconosciuto e indecifrabile, anzi, eleva le esperienze quotidiane ad altari plastici di una fisionomia accessibile ad ogni individuo e scaturisce, in seno alla sua esperienza di scultore, inedite visioni immaginifiche di una bellezza neutrale e scevra da qualsiasi forma o volontà di un futile decorativismo. In un’epoca segnata da processi storici improrogabili le opere di Petrone marcano un radicale punto di svolta, poiché l’assenza di un’ideologia conclamata genera un pensiero libero e una comune forma di discernimento dove non vi è la pretesa di insegnare qualcosa o indottrinare nel proprio modo di vedere il pensiero sociale.
C’eravamo tanto armati, armati di passione, di coraggio, di idee, oggi, forse, assistiamo al nostro disarmo e l’opera di Petrone non fa che sottolineare questa perdita di fiducia nel presente, che forse, in prima istanza, è soltanto la perdita dell’amore.
NON ARIDO – Giuseppe Autiero
Le opere ultime di Francesco Petrone hanno un impatto visuale molto forte, dalla fruizione immediata ma non certo indolore: molto si gioca nel contrasto tra l’aridità scabra dei materiali sussistenti (mattoni forati, scheggiati, più spesso colate di cemento armato, gesso o calce) e la sovrapposizione di calchi coloratissimi, più spesso insetti, dall’apparenza e consistenza e lucentezza di lattice o resine, gomme dure, quasi da giocattolo.
A ben vedere, entrambi i poli di questa escursione cromatica consistono in colate viscose rapprese nei minuziosi stampi e coni che l’autore allestisce nel suo laboratorio, va da sé molto artigianale, molto sbilanciato verso l’officina o l’arsenale. L’effetto è sorprendente, a dir poco disturbante: bambolotti di cemento aggrediti da mosche, teschi sulla cui sommità fioriscono bouquet di verdissimi trifogli, ratti grigi che annusano panini, un nido le cui uova si ricoprono di scarafaggi nerissimi, un pallone che sventrandosi vomita chiodi verdi, una chiocciola rossa che sembra liquefarsi da una scheggia di laterizio… Accrescono l’inquietudine i fili metallici, le viti e chiodi che sbucano dagli oggetti grigi, i quali tutti rappresentano il ed alludono all’elemento organico, o al limite ad una vita e vitalità che tuttavia si rapprende e inaridisce nella materialità cementizia; all’altro polo cromatico, la moltiplicazione degli insetti, lucidi ed inquietanti nella loro frenesia plastificata.
Aleggia un senso di morte e quasi putrefazione, negli oggetti sottostanti ai nugoli di insetti e roditori, ma appunto contraddetto (o forse esaltato) dalla scelta del materiale e dall’esibita concrezione. È forse più di una denuncia dei guasti della seconda e terza ed ennesima industrializzazione, più di un generico appello ecologico: è una visione allucinata ed apocalittica, da segni premonitori di epifanie di Anticristi, il day after di un disastro ormai consumato (una age after?), allorché solo topi e creature pullulanti e formicolanti, usciti dalle visioni veterotestamentarie o dalle tele di Bosch, ed adeguatamente, warholianamente plastificate, danzeranno sulle reliquie arse e rapprese di un ingegno umano mai così ostentatamente autolesionista.
FRANCESCO PETRONE – Mariangela Capozzi
Gli anni’80 hanno dato nutrimento alla generazione degli artisti ultra-trentenni, lasciando nelle loro tasche il regalino di un debito pubblico spaventoso, disoccupazione e scempio del territorio. Nelle “magagne italiane” degli anni del secondo boom economico va a rovistare l’artista pugliese Francesco Petrone (Foggia 1978, vive e lavora a Roma) per ritrarre, con ironiche istallazioni, i più odiosi difetti dell’incivile fare italiano: il racconto per immagini scultoree di un paese costruito con “materiali scadenti”.
In tempi di crisi economica il pericolo di un “contagio italiano” è quanto mai attuale e il tema viene presentato dall’artista come una cruda riflessione sulla realtà contemporanea nazionale e su quelle che possono essere individuate come problematiche globali.
L’essere umano è rappresentato metaforicamente come un insetto dai comportamenti massificati e omologati, perso nella vanità e nell’autoc
elebrazione personale rappresentata con l’utilizzo di colori sgargianti. Questi raffinati “italian bugs”, realizzati con precisione anatomica dall’artista con i materiali di uso idraulico come stagno e piombo, vanno ad affollare degli ironici set fotografici, costruiti da Petrone come delle messe in scena teatrali. Mosche, formiche, lumache sono immortalate nell’atto di costruire senza senso o distruggere ciò che è necessario per la sopravvivenza.
La realtà appare pietrificata in un universo in cui domina il cemento, il “re dell’edilizia contemporanea”, armato dall’artista con chiodi e bulloni inseriti nei calchi alla rinfusa, come un corpo ricomposto maldestramente dopo un’autopsia. Petrone sceglie questo materiale di ampio utilizzo industriale e scarsamente utilizzato in campo artistico a causa della sua deteriorabilità: il fattore tempo è così intenzionalmente inserito all’interno dell’opera stessa, destinata a subire la caducità di un mondo costruito male.
L’uomo decerebrato, ridotto a comportamenti standardizzati, ronza intorno a panini di cemento, di cui stupidamente cerca di nutrirsi e persino i famosi prodotti orgoglio del “made in italy” vengono trasfigurati in chiave post-atomica in una dimensione dominata dall’ironia dell’artista, con i titoli delle opere che entrano a far parte, di prepotenza, dell’atto istallativo.
Cementificazione del territorio, dittatura del mattone come investimento e status sociale, sgretolamento del territorio, economia dell’emergenza, sconsiderato consumo di risorse, sono alcune delle tematiche affrontate con un lavoro originale di materializzazione e costruzione iconica di messaggi e provocazioni artistiche.
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